Usciti dal cinema, nell’ormai lontano 2023, si ha subito la sensazione di aver visto un film, Perfect Days, che supera i confini della pellicola per lanciare un messaggio straordinariamente potente. In una società votata al progresso e all’innovazione, ma soprattutto alla performatività dell’individuo, il lavoro di Wim Wenders sembra voler esaltare la storia minima di tutti i personaggi che si stagliano sullo sfondo dell’esistenza.
Perfect Days racconta, infatti, la vita uomini di successo e la frenetica quotidianità di Tokyo, la metropoli più grande del mondo. Ma lo fa con la coda dell’occhio, puntando il focus della cinepresa altrove, esaltando storie minime e, all’apparenza, di poco conto.
Un protagonista silenzioso
Il sessantenne Hirayama vive in una piccola casetta di periferia, dove con calma e pazienza cura ogni giorno le sue piante, legge libri e sviluppa le sue fotografie. Lavora come responsabile della pulizia di alcuni bagni pubblici di Tokyo, che cura con impegno e dedizione, nonostante la totale assenza di riconoscimento e gratitudine da parte dei cittadini della capitale nipponica. Anzi, è spesso oggetto di occhiate diffidenti da parte degli avventori.
Quello che colpisce, fin dall’inizio del film, è il silenzio che avvolge la sua vita. Un silenzio così profondo e intenso che sembra a volte trasformarsi in un roboante e stridulo urlo di disperazione. C’è qualcosa che stona nella serenità dei perfect days di Hirayama, nella sua etica lavorativa, nel suo leggere libri e ascoltare cassette musicali degli Anni 80. E non è solo il confronto con le frenetiche vite dei businessman giapponesi, ma anche nel modo in cui l’uomo guarda e ascolta il mondo.
Il quadro umano struggente di Perfect Days
Senza voler fare spoiler, la storia personale di Hirayama si comprende piano piano che ci si addentra nel racconto del film. Ma non è declamata, né raccontata. Assomiglia a un silenzioso cenno col capo, un invito che Wenders porge allo spettatore, affinché quest’ultimo possa decidere se voler comprendere quegli struggenti cenni biografici.
E per chi sceglie di addentrarsi nella psiche del protagonista, ad attenderlo c’è un iceberg di non detti, di storie familiari e personali che si intrecciano, incorrendo le une nelle altre e rincorrendosi senza raggiungersi mai.
Quanto pesa non volersi uniformare alla società?
Perfect Days termina poi come è iniziato. Senza cambiamenti, senza stravolgimenti. Si ha solamente la sensazione di una presa di coscienza intima e profonda, che rende Hirayama uno sconfitto.
Masticato e dilaniato nell’animo da una vita che ha cercato di rifuggire, mentre il suo stesso spirito sensibile e delicato veniva rifiutato e calpestato dalla società della performatività.
E così i “giorni perfetti” terminano il loro ciclo nel dolore di un’esistenza che riflette un dramma individuale. Pronti a ricominciare in una girandola senza fine.
Nel peso di non volersi uniformare, di non voler accettare i dettami sociali. Perché non può bastare leggere libri e ascoltare la musica? Perché non può bastare fotografare raggi di luce che fendono le fronde degli alberi? Perché non può bastare una lattina di caffè freddo?
Perché una società non può accettare che altri non abbiano desideri di gloria o magnificenza? Domande che Wenders pone e che, volutamente e sapientemente, lascia senza risposta. Perché è lo spettatore che deve decidere e che deve applicare il proprio sistema morale.
Hirayama fotografava spiragli di luce, dal buio in cui si nasconde l’esistenza di chi vive una vita minima e lontana dai riflettori. Perfect Days è per questo un piccolo capolavoro, che mostra come il cinema sappia raccontare grandi storie e affascinare anche senza effetti speciali o trame mirabolanti. Un inno alla profonda umanità rappresentata dalla capacità di stare in silenzio.
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